L’avessimo scritto cinque anni fa (quando per altro già lo stavamo dicendo insieme a molti altri), ci avreste preso per dei “Wanna Marchi” qualunque della comunicazione. Ora è un dato di fatto e la cosa più sconvolgente è che probabilmente lo è sempre stato, ma abbiamo voluto credere per lungo tempo che a prendere le decisioni fossero solo delle entità astrali superiori, svincolate dalla realtà e dal contesto umano e sociale.

 

 

Forse non è mai stato così

 

Nel momento in cui metti piede nel mondo della comunicazione, ci sono tutta una serie di dogmi che vengono, a ragione, inculcati nella testa di tutti quelli che possiamo considerare novizi; si va dal “Don’t play with my logo” al “i brand non devono prendere posizioni politiche”, tutti concetti che hanno un senso ed un obiettivo: dare ordine e regole ad un mondo molto soggetto a visioni personali.

Tutto ciò è corretto ed ha perfettamente senso fino a quando non si scontra con il tempo e tutto quello che si porta appresso: evoluzione, cambiamenti, nuove visioni, nuovi canali, nuovi consumatori; insomma, nuovo tutto e tu, piccolo padawan dell’advertising, non ricordi più se quelle regole sono il punto di arrivo o solo il punto di partenza.

 

Risposta B, e molte dinamiche risultano talmente evidenti da farti dubitare persino di alcuni di questi dogmi e, per estensione, dello stesso mondo che ti ha formato, nella sua capacità di essere effettivamente aperto a percepire i cambiamenti e reagire di conseguenza.

 

 

Parafrasi della tesi

 

Il mondo del Business to Business (quindi il mercato tra aziende) ragiona in modo molto simile a quello del mercato di massa verso il consumatore, altresì chiamato Business to Consumer, quello dove sono le aziende a proporsi a noi, liberi cittadini con il portafoglio in mano.

 

Ecco il mio amato sillogismo:

 

Il B2C è fatto, per definizione, di persone.

Nella maggior parte dei casi, le persone prendono decisioni basandosi sulla loro sfera emotiva.

Anche le aziende sono fatte di persone.

Quindi anche loro prendono molte (o parte) delle decisioni su base emotiva.

 

È un po’ più complessa di così, ma non servono troppe puntualizzazioni per arrivare molto vicini a quella che è la reale fisionomia della realtà.

 

 

È successo e basta

 

È stato un percorso di consapevolezza graduale, costante, senza troppe accelerazioni, passato quasi sotto traccia e innescato, con molta probabilità, dai grandi player del mercato che, un po’ per coerenza e un po’ anche (diciamocelo) per pigrizia, hanno cominciato ad utilizzare le proprie campagne di advertising anche per presentare le proprie creature a fornitori, forza vendita e potenziali gruppi d’acquisto.

 

E quando intuisci che tutto ciò riesce a fare molta più presa, farsi prendere la mano è un attimo.

Quello che prima era semplicemente un logo diventa improvvisamente un brand con valori e storie annesse e connesse; si vuole comunicare la competenza, la qualità, lo status, esattamente come un qualunque marchio di abbigliamento, di automobili, di smartphone, arrivando a sperimentare anche di più rispetto al mercato consumer; e questo perché ci si da ancora la possibilità di sbagliare.

 

Non è un caso se alcuni degli esperimenti digitali più riusciti degli ultimi anni provengono proprio da qui: l’obiettivo in molti casi non è vendere né generare lead, ma stupire e, di conseguenza, posizionarsi e raccontare aziende vive, che possono permettersi di investire in un ambito considerato fino a poco tempo fa, superfluo.

Da questo punto uno degli ambiti più interessanti in cui lavorare e nel quale, guarda caso, il nostro paese presenta una varietà infinita di attività.